La vita nuova

Quale arte, quale critica d’arte si può produrre in una fase storica come questa che attraversiamo, segnata da guerre, migrazioni di popoli per decomposizione degli Stati postcoloniali, violenze di ogni tipo.

Tra l’artista e il critico c’è forse in comune l’oggetto della riflessione, ma i loro linguaggi sono diversi e rischia di farsi a pezzi il codice della comunicazione. La stessa tensione si crea tra l’artista e l’osservatore: piace questa pittura? Non piace?

     Cominciamo dalla sua ambiguità: i quadri si possono leggere seguendo due linee interpretative opposte: una è quella del Novecento che fa i conti con la decadenza di una civiltà e ne stravolge le forme, creando immagini di rottura, sconvolgimento, disarmonia; l’altra è quella che fa del decadentismo stesso il suo contenuto: ne scruta le forme, le capolvolge, scompone le stesse scomposizioni cubiste, e che cosa crea? L’immagine di mondi attoniti, scomposti e sovrapposti con una allusione costante a un punto di partenza: la guerra di Troia, la forza (kratos) contro il diritto, contro il codice morale (ethos) – gli Ateniesi contro i Melii in Tucidide – e un’allusione altrettanto costante al sacro (significata da cupole e campanili che se ne volano agli angoli alti dei quadri). Sicchè la morte diventa preludio della resurrezione, della vita nuova.

     Dante direbbe che la vita è rinnovata dall’amore. Anche Biagio vorrebbe dire così, ma ha paura di spacciare un desiderio per una realtà, e si mantiene al di qua dell’utopia: in paradiso andateci voi, io cercherò di seguirvi.

 

     C’è una conciliazione di tutti con la morte e di nessuno con se stesso. È la realtà. Ma chi osserva questa pittura, attraversata da un dolore muto, sente che l’artista gli mette innanzi questa realtà affinchè egli la rifiuti: i giganti devono usare la propria forza per ribaltare questa realtà: sono pietrificati – si muovano allora, ricomincino a progettare, costruiscano la città futura.

     Il punto di vista del pittore-filosofo è frontale, affisato immediatamente, davanti ai nostri occhi, alle rovine della civiltà.

Ma guardiamo agli angoli superiori dei quadri: lì, appena citati come ricordi perduti, ci sono lembi di cieli azzurri, onde marine col loro innumerevole sorriso, stracci di sogni inibiti, confinati ai margini, appena visibili. Ma chi avrebbe il coraggio di disegnare e dipingere a tutto tondo l’utopia sospettando di ingannare se stesso prima che tutti gli altri? Se mai amore c’è, c’è solo come quella lusinga che distrugge.

 

     Ecco perché in questa pittura spesso la luce giunge di traverso come una luce di tramonto, in cui le ombre sono più lunghe delle cose concrete. Sulle immagini domina il silenzio, ma la pittura con un originale trattamento tecnico del colore crea volumi che contraddicono la propria staticità: alle mummie di Ruysch, nell’anno matematico, è concesso di parlare per un quarto d’ora. Così nelle Operette morali di Schembari il non essere prende coscienza di sé e dice che la morte è una condizione dei vivi che hanno paura di non esserci e perdono l’orizzonte dell’io, vedono tutto al negativo e si inibiscono ogni via di salvezza. Così la pittura contraddice quello che, pure, dice: le torri crollate, gli uomini rotti, quella donna tagliata a metà all’altezza dell’ombelico: tutti investiti dai lampi di luce del sole di mezzogiorno: (E più corusco e con più lenti passi/teneva il sole il cerchio di merigge – Dante, Purg., XXXIII, 103-104)

 

     L’impero occidentale con tutti i subimperialismi che gli ruotano attorno  porta con sé quello che vedi in tutti i quadri di Biagio: l’autodistruzione di una civiltà. Come inceppare questo meccanismo perverso? Come rimettere l’uomo al centro dell’attenzione dell’uomo? La pittura di Biagio Schembari non avanza la pretesa di saper rispondere a queste domande. E comunque si tratta di domande alle quali deve rispondere la politica, non può rispondere la pittura.

Questa può solo diffondere un velo di pietà sulle rovine.

     Veniamo ora al problema del piace o non piace di questa pittura: ossia al problema della adeguazione reciproca di codici comunicativi diversi: quello dello spettatore e quello del pittore. Il pittore desidera che gli sia ricambiato l’atto di modestia con cui ha cercato di dare forma e colore a certe emozioni, illustrando il mondo per come si è storicamente evoluto, ma senza cadere in luoghi comuni del tipo mondo è stato e mondo è, oppure non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Lo spettatore allora deve adeguarsi con modestia al codice del pittore, decifrarlo e ritrovarvisi: di te si parla qui.

 

     Le figure della pittura di Biagio presentano sempre fessure, bocche aperte, occhi neri rettangolari, buchi. Il buco non va interpretato negativamente, ad esempio, come effetto di un proiettile sparato al centro della fronte, ma piuttosto come un segno di apertura, cioè  di accessibilità, di disponibilità: sicché le bocche, le froge del cavallo aperte in tensione non sono maschere tragiche – come pure subito si penserebbe che siano – ma esprimono, in una dimensione di accorata socialità, una energia indeterminabile, l’elevazione a potenza dello spirito, che è propria del sacro: tutte le cose acquistano vita come volontà di esistenza: non sono cose che, nel loro esserci, svelano di essere state gettate nel mondo (Heidegger), ma cose che si proiettano nel mondo sotto la spinta della loro volontà di esistenza.

 

     Così si presenta all’osservatore  il paesaggio di Ibla, dove le case sembrano costruite l’una sull’altra, come sono accostate, sovrapposte e fuse le masse della pittura di Biagio: segni, indizi, presagi della potenza del sacro (Biagio ricorda la chiesa di Sant’Antonio a Padova, in cui attendeva la guarigione di sua madre), dove lo spettatore di questa pittura è coinvolto e smarrito nell’immensa navata, accanto alle colonne che lo fanno sentire piccolissimo, dinanzi alle mura dei ciclopi, come se avesse attraversato le porte del Sonno, piegato il passo dalle tenebre alla luce, e avesse rivisitato in questa pittura tonale il mondo intero come storia e come geografia, cioè attraverso spazi temporalizzati (che sono ora quelli della città antica ora quelli della città medievale e, soprattutto, di quella rinascimentale) e tempi spazializzati.

     E a ripercorrere a ritroso con la memoria fattasi pittura questi spazi storici ci si ritrova nella stessa condizione psicologico-esistenziale che si ha dinanzi alla morte dei propri cari: (sul far del mattino, vidi mio padre, libero ormai del corpo fiaccato dalla malattia: s’imbarcò per varcare da solo l’Oceano fino alla terra senza uccelli). Tale è la potenza del sacro nell’arte – rileggiti i libri X e XI dell’Odissea.

                                                                                                      

                                                                              ALDO COTTONARO

Lascia un commento

Close Menu
×
×

Cart