Pippo Guastella

Conosco Biagio da tanto tempo. Abbiamo fatto delle cose insieme per brevi periodi, nell’arco di alcuni anni dell’adolescenza. Siamo stati una coppia affiatata in particolari occasioni sportive (pallacanestro). Entrambi abbiamo frequentato la Scuola  d’arte di Comiso e l’Accademia di belle arti di Firenze.

Lì, nella città rinascimentale, abbiamo seguito i corsi di scenografia del prof. Ferdinando Ghelli: genio e sregolatezza. Poi ci siamo persi di vista per una ventina d’anni e passa. Biagio scelse una strada lontana dal perimetro dell’arte e si costruì un mondo su misura, prima a Padova e dopo a Comiso, dove è tornato a vivere con Margherita, sua moglie. In realtà Biagio non aveva mai smesso di produrre quel tipo di pittura che lo aveva caratterizzato negli anni dell’Accademia. Si esercitava per un bisogno intimo di proporre quelle figure statiche, ricche di colori e ritmi cromatici. Figure che Carlo Isola ed io, una manciata d’anni fa nelle vesti di videomaker, ci siamo divertiti, complice l’effetto morphing, a far muovere a suon di musica. Si dice che «nessuno è profeta in patria» e in genere è vero. Ma le vicissitudini pittoriche di Biagio Schembari nella sua terra natia smentiscono questa massima, forzando la mano a un destino adagiato sulle ali di Icaro, bruciate già prima di spiccare il volo. Dobbiamo tendere l’orecchio e ascoltare il canto delle sirene? Compiacerci e cedere alle lusinghe? O rassegnarci alle disquisizioni severe sulla pittura di chi non ha mai sentito l’odore della terra d’ombra bruciata? «Questa pittura non è pittura. E nemmeno lo scenografo è abilitato a produrne, perchè viziato dall’idea teatrale di un’arte estranea, minore». C’è chi sostiene questa tesi, sentenziando con un giudizio fulmineo sulla pittura di Saro Lo Turco, pittore e scenografo comisano. Ma questi suoni non echeggiarono nella mente di Biagio Schembari, che, altrimenti, incrementò e sublimò l’esercizio pittorico nelle forme e nei contenuti a lui congeniali. Fino a raggiungere la Biennale di Venezia: punto di approdo per artisti in cerca di gloria. Senza essere un argonauta nella terra di Giasone. Mi capitò una ventina d’anni fa di salire sulla cupola del Brunelleschi insieme a un gruppo di amici. Il capomastro che ci guidò a visitarla ci disse che gli interventi di manutenzione venivano fatti ogni duecento anni. E mentre si saliva a cavallo di un montacarichi approntato ad hoc, consapevoli del privilegio che il caso ci offriva, gli affreschi di Giorgio Vasari e Federico Zuccari si delineavano in una forma approssimativa e «scenografica». Proprio perchè Zuccari, in particolare, amava l’effetto scenografico che si ha in teatro, allorquando il fondale è godibile appieno soltanto a distanza di alcune decine di metri. Da vicino è un «disastro»: le forme sono diluite e sfocate in un tripudio di sapienti e misteriose pennellate del pittore/scenografo. Basterebbe questo a confutare l’idea del «critico inutilmente severo». A una dozzina di metri dalla cima, vicino alla lanterna, fra le crepe sui muri della doppia calotta, mi vennero le vertigini, che si accentuarono allorchè volsi lo sguardo verso terra, dove vidi gli uomini come piccole formiche. Spulciando negli annali del Maggio Musicale Fiorentino, mi sono imbattuto in un nutrito numero di pittori/scenografi, tra cui De Chirico, Guttuso, Bussotti, Derek Jarman e Bruno Mello, autore dell’unico testo (veramente efficace) di scenotecnica esistente al mondo, dove anche Biagio ed io abbiamo attinto. E Biagio Schembari ha imparato la lezione dei maestri, facendosi maestro anche lui.

                                                                   Pippo Guastella

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