Paolo Rizzi

“C’è un fantasma che corre alle spalle di Biagio Schembari. È qualcosa che s’ingrandisce, come alitato dal vento: prende in sé la scabra durezza delle cave di pietra di Comiso, ma nel contempo respira l’aria maestosa di un Mediterraneo vicino.
Eccolo, questo fantasma, assumere aspetti antropomorfici, diventare esso stesso architettura abnorme, visivamente protesa ad una dimensione onirica dell’esistere. Ne restiamo immagati.
Dietro c’è la pulsione del mito, irresistibile spinta ad una fuga utopica oltre le colonne d’Ercole del banale quotidiano.
La pittura penetra dentro di noi, si salda con la nostra coscienza inquieta.
Questa è la “verità” che esprime Schembari. Dico “verità” perchè intendo sempre e comunque primaria l’aderenza ad una geografia dello spirito: quel cogliere nell’ambiente i sintomi di una cultura pur nascosta, pur lontana, ma sempre viva.
La plaga di Ragusa, in cui emerge Comiso, è terra fertile per la fantasia.
Dalle case scavate nella roccia si percepisce il senso forte di una primitività che risale i tempi, che s’annida negli idola proto-greci e magari torna indietro, fin dentro le stupefatte apparizioni fenicie e siriache.
È qui che nasce il mondo classico; è qui che il kouros nuove i primi passi verso il dominio del Logos. Questo momento aurorale della civiltà si colora delle glorie omeriche con il nero e il rosso della ruggine e con il bianco intenso, dando carne ed ossa al pallido calcare. La metamorfosi si compie.
Schembari non fa che attingere a questo enorme repertorio che aleggia sopra la sua terra.
Ecco l’arcano che s’insinua nella pittura; ed ecco la sensazione di trovarsi sul crinale tra due grandi momenti: quello della storia antica e quello della psiche moderna.
Schembari è pronto a cogliere le suggestioni di uno slittamento della fantasia.
Costruisce le sue isole magiche, i suoi oracoli di pietra, i suoi fari giganteschi, le sue architetture-animale, le sue figure che prendono forma dalla costa. Egli gioca sull’ambiguo proprio perchè l’ambiguo è l’humus entro cui si forgia la fantasia e su cui si insinua la carica misteriosa del mito.
Una mediterraneità panica si apre davanti ai nostri occhi attraverso le forme gonfiate di una roccia che si fa organica, mescolando terra e sangue, polvere e acqua, pietra corrosa e pigmento dell’Eros, feticcio immobile e mobilissima carne. Ma questa grandiosità monumentale acquista anche spessori surreali, brividi di metafisica pura, sottili inquietudini: è antica e moderna insieme.
L’arcaico si attualizza: diventa patrimonio nostro, indissolubile.
Il filo su cui corre, oggi, la miglior pittura è proprio sospeso tra i due abissi dell’ieri e dell’oggi.
Si vuol saldare le due dimensioni già scisse dalla rottura storica delle avanguardie. Ma è tutto il mondo che cerca disperatamente, nella politica come nell’economia, un nuovo equilibrio con il passato. La temperie drammatica in cui viviamo è davanti a noi: davanti a questi quadri che, richiamandosi al senso ancestrale di una Magna Grecia ancora profondamente radicato, appaiono anche straordinariamente moderni, ricchi di fertile immaginazione, pregni anche di un “progetto” che coinvolge l’uomo.
Piace la forza scabra che promana dalla pittura; e colpisce la trasposizione così fiera del mito nel linguaggio del nostro secolo.
La matrice metafisica e surreale si salda perfettamente con la concezione etnica che è alle spalle dell’artista.
Ci par di rivivere il momento eroico in cui il kouros scioglie il suo impaccio: avanza la gamba, ruota il braccio, ammorbidisce la sua rigidità: la pietra scabra di Comiso si muove anch’essa, impercettibilmente. La sentiamo respirare. Il fantasma di Schembari entra dentro di noi e ci conduce per mano oltre il mare di blu cobalto, verso le isole misteriose di un Eden che da millenni agogniamo”

Paolo Rizzi.    Critico d’Arte  –  Venezia

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