Aldo Cottonaro scrive

…hanno costruito un mondo con la sovrapposizione di più mondi, che rimane collocato a occidente, come sottolinea la luce cangiante, intensa – ma la notte è prossima a venire nonostante che i raggi del sole rompano ancora l’oscurità. E’ la luce di Miguel de Cervantes (e di Caravaggio e del Greco e di Velasquez): un eterno tramonto, l’Occidente appunto.
Eccoti la sua storia: dal cavallo di Troia alla fondazione di Roma, quando la pietà diventerà crudele, e poi il medioevo dell’assalto al castello nemico, fino all’età moderna che abbandonò la città di Dio e disegnò, cominciando dall’Italia, la città razionale dell’uomo. La quale man mano si è gonfiata (Westfalia 1648, Utrecht 1713, Aquisgrana 1748), è esplosa al suo interno in cinque rivoluzioni sociali (in Inghilterra, in America, in Francia, in Russia, in Cina), ha conosciuto (e conserva) il nazismo (una forma particolare dell’imperialismo antico, che era stato moralistico) ed è diventata “globale” a partire dl 1945 (lasciando la chiesa lassù, remota: era stata ecclesia, comunità solidale di uomini e di donne – è diventata il museo della trascendenza).
Questa città globale ha invaso e deportato la natura, persino là dove si sentivano quelle estenuate malinconie d’amore all’ambio del cammello per il deserto senza confini, voci di una solitudine disperata che non si dava la morte (come fa adesso per uccidere) perché potesse durare senza fine. Il canto del carovaniere (e intendo dire l’arte, a oriente e a occidente) produceva così un effetto di stordimento che toglieva gli aculei al dolore e lo lasciava fluire quasi carezzevole come l’onda quando ha perduto l’impeto e scorre, levigandole, sulla nuca e sulla schiena.
Finchè la città di metallo e di gomma ha spazzato via anche i residui del giardino dell’Eden, e un Adamo di bronzo (senza Eva), grosso come Polifemo, certifica che la cultura degli uomini si è uniformata al modello peggiore: Sei sempre quello della pietra e della fionda.
Guarda come sono diventati gli uomini nella pittura di Schembari: obesi ma strutturati, impotenti e perciò armati – senza grazia femminile, senza sesso, senza tenerezza – corpi inconsapevoli del male che li insidia
Dunque abbiamo tanta paura del futuro che perciò subiamo la fascinazione del passato? E il passato ci attrae solo perché è morto e quindi non può danneggiarci?
Così pare che stiano le cose in questa pittura, che si inibisce il progetto, blocca la storia non scorgendovi più la forza del divenire ma solo una colossale e statica identità: nella dimensione stupefacente  dei globi sovrapposti (con ocra che di qua diventano gialli, di là marrone, con una calma d’avorio) l’osservatore, che pensa sempre, per istinto erotico, di potere inseguire i sogni della pittura, se li trova coagulati in pastoni di farina e acqua, sogni realizzati e cioè reificati: sogni trasformati in cose – cose che esprimono solo l’identità con se stesse : il contrario del sogno dunque, l’utopia capovolta, il futuro rovesciato e ricondotto alle sue basi materiali nel passato. Senza sviluppo. Come se la storia fosse una eterna ricapitolazione di se stessa.
Anche il siciliano Biagio Schembari ha recepito la lezione del siciliano Gattopardo:…affinchè tutto rimanga come è…nunc et in hora mortis nostrae.
Ma l’angoscia della morte s’è fatta arte, e l’arte appunto vince la morte.
Questo è l’assunto fondamentale della poesia (che è il fare, il far nascere, il creare, il contrario appunto della morte: adémpiti, o magia sovrumana delle sillabe illuminate di pianto, magia simile alla passione di Cristo Majakowkij). E lo è a Oriente e a Occidente perché si muore a tutte le latitudini.
Tuttavia la ripetizione ossessiva, quadro per quadro, di questo motivo sembra smascherarne la natura ideologica: al colmo della paura, per attaccarsi alla vita, gli uomini ingannano se stessi (diventano anche artisti), ma questa vibrazione vitale, per dolcissima che sia, non smette di essere quello che è: un micidiale inganno creatosi per sbandamento laterale e sovrapposizione di prospettive, come nel dialogo leopardiano di Plotino e di Porfirio.
Non hai notato che la prospettiva di Schembari muove dall’alto? Dal punto di vista di Dio, dunque. Ma è deus absconditus, e se è vero che guarda, è vero anche che vede solo frane.
Si avvicina il cortocircuito mentale: l’arte risuscita, va bene, ma risuscita morti. Biagio è timido, l’ha capito, ma non vorrebbe dirlo.
È proprio qui il commovente paradosso della pittura di Biagio: rappresentare l’agonia di tutti i mondi possibili significa bloccare questo processo proprio nella rappresentazione impedendogli di sboccare nel nulla; significa bensì dipingere la decadenza, ma evitarne o ritardarne all’infinito il momento terminale. L’intreccio tragico (desis) non ha soluzione catastrofica (lùsis). Un tempo questa  si chiamava pietas.
Ora Biagio ci ha detto sufficientemente qual’è la potenza della fede; ha potenziato l’amore elevandolo da stucchevole commercio di sesso (com’è quasi universalmente  rappresentato) a spirito di carità; ma quando avrebbe dovuto dipingere l’aurora della speranza (dolce color d’oriental zaffiro), le ha dato, come Cervantes e Caravaggio, la luce del tramonto, dicendo che nell’Occidente dei paradossi della ragione si può concepire solo una speranza problematica.
Ora torna a guardarli negli occhi e nelle bocche, questi uomini di Schembari, mentre il sole si ostina a inondare di luce i loro globi coesi in uno spaventoso silenzio.
Ti sembrano uomini e donne felici?

                                                                                             Aldo Cottonaro

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